La
reazione forse più diffusa nel pubblico delle mostre d’arte
– pittura, scultura, fotografia ed ancor più nel caso delle
installazioni – è quella di chiedersi "che cosa vuole
dire questo? che cosa pensarne?". Questa domanda affiora
comprensibilmente davanti al ‘mai visto’, ma anche davanti
al ‘sempre visto’, davanti alla ri-presentazione di parti
del mondo quotidiano nude e crude, senza traccia evidente di un
intervento d’artista – lo scolabottiglie o l’orinatoio di
Duchamp – di frammenti del ‘mai guardato’, del banale
quotidiano davanti ai quali restiamo indifferenti quando non
irritati per quella che riteniamo una presa in giro; dicono gli
psicologi che sempre - inconsciamente, istintivamente - reagiamo
a quello che abbiamo davanti – persone e cose – decidendo se
è buono per noi o no, ma in casi come questi, diffidenti verso
gli estremi del ‘mai visto’ e del ’sempre visto’,
rinunciamo a spendere le energie necessarie per capire qualcosa
di più dell’opera - di noi davanti all’opera - e passiamo
oltre, ce ne andiamo avvertendo però oscuramente di aver perso
comunque qualcosa, come nell’incontro con uno straniero di cui
non capiamo la lingua né i gesti.
Non
ci sono solo reazioni frustranti, ci sono anche reazioni
gratificanti: da quella di chi ‘sa’ ed è rinfrancato dall’esercizio
del giudizio, a quella di chi magari non ‘sa’ niente, ma
reagisce d’istinto come la mia amica che, entrata nella prima
sala del museo Vasarely, è scoppiata a piangere per un’emozione
incontrollabile. L’approccio puro-visibilistico richiede
comunque sensibilità ed apertura non comuni – se no è un pò
come comandare ‘sii naturale’ – e poi produce più
emozione che comprensione, e così per me vale quello che diceva
Roberto Gabetti e cioè che sui fatti espressivi può
pronunciarsi solo chi ha affrontato gli stessi problemi, e
quindi forse può servire dare un’idea dei problemi che stanno
dietro un lavoro come questo.
Gli
alberi di Natale e le stelle comete - variamente addobbati,
variamente realizzati – appartengono al ’sempre visto’,
perché ogni anno ne vediamo dappertutto, fanno parte dello
sfondo visivo del Natale, così come le ‘carole’ fanno parte
dello sfondo sonoro; tutti insieme – alberi, stelle, canzoni
– sono ‘il Natale’, come la neve, il vischio e il
pungitopo, il panettone e i pacchi dei regali.
Perché
occuparsi del ‘sempre visto’? Perché l’esperienza insegna
che anche nel ‘sempre visto’ più banale si possono
nascondere sorprese, e poi perché questo del Natale è un ‘sempre
visto’ di tipo particolare: intanto si vede tutti gli anni, ma
una volta sola all’anno, poi perchè è un ‘sempre visto’
fatto di alberi e stelle tutti diversi perché ‘fatti’ a
mano, ed ancora perchè è un ‘sempre visto’ a rischio di
estinzione ed infine perchè è un ‘sempre visto’ che ci
parla di una festa importante, forse la più importante, perché
da questa festa più che da tutte le altre, ci aspettiamo
oscuramente un regalo segreto e impossibile : la felicità.
In
questo ‘Album di Natale’ ci sono però solo alberi e stelle:
perché solo alberi e stelle? Perché soprattutto loro, tra le
figure legate al Natale, sono associate alla luce, e la luce è
a sua volta strettamente legata al Natale, ne è l’essenza
ultima e segreta. Spiegano infatti gli antropologi che nella
notte dei tempi la scomparsa progressiva del sole all’arrivo
dell’inverno era vissuta come una minaccia paurosa, così che
l’inizio del ritorno progressivo del sole veniva visto come
una promessa di scampato pericolo, che andava quindi
festeggiata; una storia lontana che trova un’eco, una conferma
recente , nei rapporti dei medici dei paesi nordici che
registrano nei mesi invernali soprattutto tra le donne, casi di
depressione, di infelicità per la mancanza di luce. La vittoria
della luce sul buio quindi è da sempre per l’uomo promessa di
vita, di felicità e questo spiega perché il Natale sia la
festa di una luce che vince il buio, e le luci degli alberi,
della cometa, siano parte di questa promessa, di questa attesa
della felicità. Dire luce non basta: le luci di Natale, tutte,
fatte di lampadine piccoline bianche o colorate, sono diverse
dalle altre luci – elettriche e al neon – che illuminano
oggi l’abitare, sono luci ‘deboli’, come una canzoncina
cantata da un bambino invece che da un tenore; dire luci ‘deboli’
non basta, le luci degli alberi e delle stelle sono ormai
varianti di tipi fissati da secoli, sono ormai delle icone,
cioè delle figure immediatamente riconoscibili, che evocano
tutto un mondo di ricordi infantili, di affetti semplici, e il
fatto che vengano usate dal mercato per stimolare le vendite è
solo una conferma di questo loro potere.
Perché
la fotografia e non le figure della pittura, le parole della
letteratura, per parlare del ‘sempre visto’ che sono gli
alberi e le stelle di Natale?
I
perché sono tanti: perché dire luce è dire fotografia;
perché la luce d’inverno ci consola della scomparsa del sole
e per Ghirri e Celati il compito della fotografia è proprio
quello di consolarci; perchè quello di guardare il ‘sempre
visto’ è un filo che attraversa tutta la storia della
fotografia, dall’inizio - la prima fotografia di Fox Talbot è
una scopa di rami contro un muro di mattoni – ad oggi, come
conferma l’attenzione critica recente alle microstorie
quotidiane che raccontano le fotografie dei dilettanti, gli
album di famiglia, e infine perché la fotografia è una pratica
strana, è il mondo passato attraverso una macchina e questo
introduce una certa distanza, una certa freddezza, possibile
correttivo a quello che di ingenuo e sentimentale (Schiller) di
infantile ma di molto naturale (Mansfield), viene associato al
Natale.
Dire
fotografia non basta, non dice tutto, perché dietro la parola
ci sono le macchine, gli obiettivi, le pellicole, che si possono
guardare come le strutture profonde del linguaggio, così come
la persona, il tempo, il periodare, sono strutture profonde del
racconto, che possono dare risultati anche molto diversi come ha
dimostrato Raymond Queneau nel suo Esercizi di stile; ci sono le
stampe che possono operare ritagli nel fotogramma, che è già
un ritaglio del mondo, e cambiarne la figura, il senso, e poi le
strategie di circolazione – mostre, libri, cartoline, poster
– che di nuovo possono modificare l’immagine del lavoro, il
messaggio della fotografia, ed infine ci sono gli sguardi,
elemento trascurato ma decisivo, su cui ha richiamato l’attenzione
John Berger nel suo saggio sulle arti visive che ha per titolo
appunto Questione di sguardi. |
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Quindi,
quale fotografia?
Una
fotografia ‘realista’, una fotografia come antropologia, che
guarda alla realtà per quella che è, senza cercare di cambiarne
lo statuto, che accetta il banale quotidiano senza cercare di
farlo diventare eccezionale. Fotografia come antropologia, vuol
dire una fotografia sistematica , fondata sulla ripetizione, su
una serie di regole – riprese frontali, senza ombre, con lo
stesso obiettivo – per ottenere immagini confrontabili, una
schedatura ‘scientifica’ in vista di un album, di un ‘atlante’.
Richiamando la distinzione di Roland Barthes tra studium e punctum
in fotografia, dire fotografia come antropologia colloca la
fotografia sotto il segno dello studium , cioè dell’interesse
per il mondo in quanto fatto di fatti (Wittgenstein); seguendo
però un'altra indicazione di Wittgenstein sul senso delle cose -
che per lui non sta tanto loro essere-in-sé, quanto piuttosto nel
loro uso, nel loro essere-per-noi - l’ antropologia, ed a
maggior ragione la fotografia, si precisa allora qui come
iconologia – come ha riconosciuto Massimo Mussini per il mio
Atlante Piemontese - e si colloca quindi contemporaneamente sotto
il segno dello studium e del punctum, dell’interesse per quello
che nel mondo ci ‘punge’, per scommettere ancora una volta che
anche il banale quotidiano può regalare miti sorprese. Questo
richiede uno sguardo strano, ’strabico’, perchè è bloccato,
‘automatico’, in quanto seleziona inquadrature semplici,
sempre le stesse, ma contemporaneamente anche ‘erratico’, in
quanto aperto a cogliere i segni del Natale senza preclusioni, a
cercare il Natale come festa ‘debole’ nei segni minimi,
semplici, negli ‘alberi’ e nelle ‘stelle’ fatti a mano,
improvvisati con materiali poveri; uno sguardo che apprezza gli
alberi e le stelle come oggetti ‘estetici’- in quanto lavoro
sulle forme autonomo e disinteressato – vicini in qualche modo
alle ‘installazioni’ d’artista.
Una
fotografia di strada allora , à la sauvette, senza possibilità
di rifare, senza intenzione di ritagliare in stampa : questo tipo
di fotografia può essere fatto con una attrezzatura semplice,
manuale, da vecchio dilettante: una Yashica compatta, che si può
portare in tasca sempre, ed una Yashica reflex base, tutt’e due
con zoom – utili per non perdere tempo a cercare l’inquadratura,
ma usati quasi sempre come un teleobiettivo - il tutto grazie alle
pellicole Fuji ad alta sensibilità, che si sono rivelate
indispensabili per non perdere tempo col treppiede per le riprese
con poca luce.
Una
strategia di circolazione – invito e mostra - che guarda al
materiale eterogeneo, raccolto in una ‘campagna’ discontinua,
come alle cartoline raccolte negli album ottocenteschi, negli anni
in cui si è formata l’iconografia del Natale ‘moderno’,
alberi e stelle, prima del Babbo Natale della Coca-cola, e questo
anche per via della ‘domesticità’ dello spazio della mostra:
una sala da pranzo che ha cent’anni, il palchetto in legno, le
finestre contrapposte che danno sul giardino e sul gioco delle
bocce. E’ questo un modo sorridente di prendere le distanze dal
tema, di illuminarne la natura storicamente determinata dal punto
di vista antropologico, e nello stesso tempo di evitare la
proposizione di foto isolate da ammirare, per restituire piuttosto
l’esperienza di un territorio punteggiato di alberi e di comete
luccicanti sotto il cielo, come voci sparse che formano un coro.
Antropologia
degli Alberi e delle Stelle
Le
luci degli alberi e delle stelle parlano tutte di accoglienza, ma
in modi diversi.
Gli
alberi di Natale sono un caso diverso dalle stelle, un caso
particolare perché anche se l’albero è lo stesso, cambia ogni
anno, anche di poco, l’addobbo: il tipo dei pezzi – ‘palle’
colorate opache o specchianti; nastri luccicanti, argentati,
dorati, colorati; e poi candele, lampadine, finta neve - la loro
disposizione, il loro rapporto reciproco e con la figura del pino,
tutte scelte che mirano ad un certo ‘carattere’; è come fare
un mazzo di fiori: una situazione in cui tutto va scelto da capo
ogni volta. Ci sono alberi piccoli e alberi grandi, alcuni molto
grandi: gli alberi piccoli sono prevalentemente privati,
domestici, quelli medi un po’ privati e un po’ pubblici,
quelli molto grandi solo pubblici, come quello del Comune nella
Piazza Vittorio restituita ai pedoni.
Le
stelle invece vengono costruite una per una, artigianalmente, ma
poi vengono riusate ogni anno senza cambiare niente; ci sono poi
stelle prefabbricate, fatte di tubi di plastica rigida e
trasparente con dentro il filo e le lampadine colorate, che
vengono vendute pronte per l’uso e tolgono così a tutti il ‘pensiero’
di decidere su tutte le questioni di forma che il progetto e la
costruzione delle altre stelle comporta, ma queste stelle
prefabbricate ci sono solo piccole e così rappresentano una parte
trascurabile del mondo delle stelle. Le poche stelle piccole sono
tutte private, domestiche, mentre tutte le altre le stelle, grandi
e grandissime - come quella di legno, lunga venti metri, sulla
facciata del ‘castello’ di Revigliasco – sono pubbliche,
messe su da amministrazioni, chiese, circoli.
Da
qualche anno sempre più numerose sugli alberi e sulle stelle sono
le luci intermittenti, che simulano un movimento, un cambiamento:
in questo gusto per l’irrequieto, in questa insofferenza
inconscia e generalizzata per tutto quello che sta fermo, che non
cambia, c’è una conferma della deriva neo-futurista ormai
diffusa in tutti i campi.
In
un passo poco noto della sua ‘Autobiografia scientifica’, Aldo
Rossi ammette che quando la teoria non dice tutto , lui si rivolge
all’autobiografia - come nel caso delle casette per studenti in
un campus universitario, che dietro hanno le cabine in legno delle
vacanze infantili al mare – osservazione che rimanda di nuovo
alla distinzione che fa Barthes per la fotografia tra studium - l’interesse
intellettuale – e punctum – l’interesse esistenziale. Così
per me dietro questi discorsi seri sulle foto dei pini e delle
stelle ci sono i pini e le stelle delle cascine, visti tanti anni
fa nei viaggi solitari attraverso la campagna buia e gelata,
tornando dal piccolo ospedale del paese dove sono morti prima il
nonno e poi la nonna; ci sono le parole scritte tanti anni fa per
una ragazza silenziosa : "a te assomiglio/ il tempo di
Natale/ per la felicità segreta/ promessa nel silenzio/ nella
luce ferma / e nel quieto splendore/ degli abeti illuminati/ nelle
stanze buie/ o nei giardini gelati ".
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