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Bivi campestri

Bivio {bi-vio} s.m.(pl-vi) *1 Biforcazione di una strada, incrocio, crocevia 2. Fig. Momento cruciale nel quale occorre decidere tra due soluzioni: trovarsi a un b.; alternativa: porre qualcuno davanti ad un b.; // Ercole al b. in senso ironico di persona indecisa tra due possibilità. ( Dizionario Italiano Sabatini Coletti ).

Ancora una volta risalire all’etimo, all’origine della parola, del parlare, illumina il fare. Nella definizione del dizionario c’è già tutto il contenuto, il senso di questo lavoro:il bivio come elemento topografico, come luogo, ma anche il bivio come figura simbolica dell’incertezza, dell’indecisione di fronte alle alternative che la vita ci impone, e infine persino la capacità di questa figura di evocare una possibile dimensione ironica, di sorridere di queste indecisioni, di queste incertezze.

Non sono questi per me temi eruditi, lontani: anni fa mi aveva colpito la notizia del suicidio di un macellaio in Francia perché la sua vita era diventata troppo complicata, mentre oggi gli osservatori del costume segnalano da una parte una nuova sindrome sempre più diffusa tra i giovani metropolitani: l’incapacità di decidere anche solo cosa mettersi, cosa ordinare al bar, e dall’altra adesioni crescenti all’Islam, visto come una condizione nella quale molte cose sono già decise e quindi tutto diventa più semplice.

Il bivio è quindi una figura che da sempre – nel mito, nella favola, nel racconto – impone di fermarsi, di farsi delle domande, di cercare delle risposte, situazione reale vista sempre come una metafora delle scelte che la vita ci mette davanti: così per Ercole che deve scegliere tra il vizio e la virtù, per Teseo nei bivi del labirinto che si aiuta con il filo, per Pollicino nei bivi del bosco che si aiuta con i sassolini, per Borges che vede la vita come ‘giardino dai sentieri che si biforcano’. Allora anche in una semplice passeggiata in collina, ad ogni bivio una sfinge campestre ci fissa muta e ci propone un enigma sfuggente, ci lascia in sospeso tra la paura dell’ignoto, e la curiosità per la possibile sorpresa nascosta dietro ogni svolta

Questo lavoro sui bivi presenta per me poi un interesse particolare perché illumina tutti i lavori precedenti, anche a prima vista diversi, perché porta all’estremo un elemento già presente in quelli: la casualità, che è per me una scelta istintiva non priva comunque di risvolti sul piano ‘teorico’; casuale infatti è stata la costruzione dell’Atlante, legata a dieci anni di viaggi da Torino a Cuneo a trovare la mia mamma, come casuale è stata la costruzione dell’album delle ‘bandiere della pace’ a Torino.

Per dare un’idea del peso di questa casualità, dirò solo che mentre le migliaia di immagini dell’Atlante potrei allinearle tutte lungo le strade da Torino a Cuneo, so dove sono state fatte e potrei tornare a farle domani, le immagini dei bivi, ancor più delle immagini delle bandiere trovate per caso nel labirinto della città, sono state raccolte come i funghi nel bosco, zigzagando sulle strade della collina torinese, sperimentando di persona ogni volta l’incertezza connaturata al bivio - così che la struttura dell’oggetto e la struttura della pratica fotografica coincidono, il tema dell’incertezza è raccontato in una situazione di incertezza - tanto che se dovessi rifarle non saprei ritrovare il posto, alla fine sono un po’ immagini arrivate come in sogno. Cosa pensare di un lavoro così in balia del caso?

Camminare in luoghi qualsiasi affidandosi al caso è stato promosso a pratica estetica dalle avanguardie del ‘900, come ha raccontato Marco Belpoliti in un numero recente di Tuttolibri; guardare quello che nessuno guarda, quello che Perec ha chiamato l’infraordinario, è pratica oggi non solo di intellettuali, ma anche di fotografi, come Guido Guidi che con la mite ostinazione degli asceti si china a raccogliere immagini povere e disseccate anche nei cantieri faraonici della TAV, come Vittore Fossati che cerca nei luoghi boscosi e deserti, segni di misteriose corrispondenze nelle forme degli alberi, della terra. Errare per la collina più deserta, guardare, interrogare con la camera, i bivi più anonimi, può essere visto allora come una pratica estetica ‘moderna’, come una tecnica per provocare lo spaesamento se non lo spauramento per la campagna di cui parlava Luigi Ghirri.

Anne Sanciaud-Azanza - una giovane donna candida ed energica come doveva esserlo Giovanna D’Arco - che ho conosciuto quand’era responsabile del Dipartimento Stampe e Fotografie della Biblioteca Nazionale a Parigi - una volta ha provato ad istituire un nesso tra i miei diversi lavori e le mie situazioni esistenziali; io non ci avevo mai pensato, solo che forse il nesso esiste, non perché si possa individuare ogni volta in modo preciso una corrispondenza tra momenti di lavoro e di vita diversi, ma piuttosto perché esiste una permanenza di incertezza ed indecisione come condizione di fondo che, grazie ad una maturità involontaria, oggi mi porta istintivamente a guardare con curiosità l’incertezza del mondo. Il lavoro sui bivi, infatti non nasce adesso, ma è uno dei ‘temi’ più vecchi, che mi porto dentro da sempre, metafora evidente delle domande sul come stare al mondo, sul come si cercano i lavori, sul come si cercano le donne, domande che non ho mai guardato fisso, per paura di esserne paralizzato come dalla testa della Gorgona, finendo così di scegliere sempre guardando altrove.

Può non essere inutile puntualizzare la differenza tra bivio ed incrocio, tipo topografico più chiaro, meno sfuggente del bivio, che, nell’equilibrio dei quattro tratti di strada ha in sé in qualche modo oltre all’idea di andare anche l’idea di stare, l’dea di un luogo singolare in cui può succedere qualcosa, come l’incrocio di campagna in cui si dice che Robert Johnson abbia incontrato il diavolo per vendergli l’anima e diventare così il più bravo dei bluesmen.